Verso la fine degli
anni ’90, in concomitanza con la rinnovata istituzione del Ministero per i Beni
e le Attività Culturali, si cominciò a parlare del rapporto tra teatro e
impresa. Eravamo a Volterra, tra attori, organizzatori e critici si provava a
fare differenza tra impresa teatrale e teatro d’impresa. Si provava a giocare
con le parole anche per esorcizzare l’avvento di una parola nuova nel lessico
comune.
Impresa teatrale piaceva
di più, richiamava il senso dell’avventura, della straordinarietà, della
partenza. I meridionali presenti all’incontro ci mettevano anche una certa
enfasi nel pronunciare la parola, la ridicolizzavano, diventava “’na bella
impreeesa teatrala”. Si cercava così di conservare il senso del teatro, di non
snaturarlo pur rendendosi conto che il sistema richiedeva un salto, una
aziendalizzazione.
Di quel gioco di
parole poi non se ne fece più niente, rimase per tutti la definizione di teatro
di impresa, il complemento di specificazione specificava.
Ancora prima il
gioco di parole aveva riguardato la differenza tra professione e
professionismo. Avevamo imparato a quei tempi che professione viene da
professare, esercitare costantemente, mettere al centro della propria vita lo
studio e l’applicazione degli strumenti e delle competenze per seguire una
direzione che avrebbe informato l’intera vita. Poi anche quella bella parola
diventò un ismo, fu scambiata per qualcosa di misurabile attraverso un
riconoscimento esterno. Il costante esercizio del professare fu scambiato per
il numero di giornate lavorative versate nelle casse dell’allora Enpals, la
centralità della vocazione fu scambiata per l’esclusività reddituale che ne
derivava.
Sono passati quasi
trent’anni da questi ricordi per scoprire oggi un mondo di lavoratori
professionisti che non professano e di lavoratori che professano senza poter
essere considerati professionisti perché il loro reddito non è misurabile,
quantificabile. Quelle giornate contributive che avrebbero dovuto raccontare
un’impresa, raccontano un’aziendalizzazione che ha lasciato fuori dai propri
cancelli la linfa vitale di cui si è nutrita. Le prove non pagate o pagate
forfettariamente a dispetto del Contratto Nazionale (che pure ha introdotto
importanti innovazioni in termini dei diritti dei lavoratori dello spettacolo) oggi
hanno lasciato indietro tutti quelli che non hanno raggiunto le trenta giornate
per poter accedere a un sostegno economico che non somiglia affatto a un
reddito, mentre altri, pur avendo provato molto meno magari quel reddito ce
l’hanno, perché qualcuno si è incaricato per loro di versare soldi nelle casse
dell’Inps pur di raggiungere i parametri quantitativi che permettono l’accesso
al Fondo Unico dello Spettacolo o ai contributi di chissà quale altro fondo.
I Teatri Stabili con
le loro programmazioni già fatte, andate in stampa, campeggianti sui manifesti,
ma non ancora contrattualizzate hanno capito subito, prima del governo, che
questa pandemia avrebbe portato a una chiusura delle attività e si sono dati da
fare ad annullare promesse e impegni verbali e scritti prima che le compagnie
potessero reclamare diritti.
Il teatro si è
perso, l’impresa è salva.
Ma chi la compone
questa impresa? Non solo gli artisti, ma anche gli organizzatori, i tecnici, gli
amministratori, le maestranze, i direttori di scena, gli esperti di
comunicazione, di social, gli autonomi con partita IVA. Tutti lavoratori che
dovrebbero avere una sola legislazione ma a cui la legislazione non è in grado
di dare risposte uniformi perché c’è differenza tra un teatro stabile e una
compagnia, tra un piccolo gruppo e un circuito, tra una compagnia riconosciuta
e una non riconosciuta, anche quando quei lavoratori fanno lo stesso lavoro,
con le stesse competenze, energie, passioni, studi, per la stessa durata di
tempo durante l’anno.
Era questa la grande
impresa che ci aspettava? La partenza, l’avventura di allora? Gli Enti locali
oggi, per salvarsi la pelle e salvare energie che richiederebbero uno studio
attento e aperto della crisi in corso, applicano parametri di salvaguardia che
vanno bene solo per gli stabili. La Regione Puglia, in ritardo di tre anni sui
pagamenti, accelera la corsa delle rendicontazioni e nel frattempo pensa a
bandi nuovi intenzionalmente più agili ma per cui ci vorranno comunque tempi
lunghi e fidejussioni. Si promuove l’accesso al credito che sarà il debito di
domani. Tutto purché non si tocchino i grandi eventi, quelli che ci hanno resi
famosi nel mondo. E nel frattempo dov’è il pubblico? Gli spettatori disposti a
partecipare a dibattiti, a scuole di visione, quelli disposti a ospitare il
teatro in casa per costruire una relazione diversa, quelli disposti a viaggiare
per uno spettacolo che nella propria città non sarebbe arrivato. Quali misure
per riconoscerli fuori dai numeri dei borderò?
Il Contratto
Nazionale aveva quasi spudoratamente introdotto la formula del compenso base
mensile, non è che per caso potrebbe assomigliare a quel reddito di esistenza
che si ha tanto paura di nominare e che invece liberebbe il campo dal tentativo
forsennato di dichiarare un lavoro pur di esistere? E magari sarebbe un
riconoscimento alla formazione continua di cui ciascun essere umano ha diritto?
L’Art Bonus applicato anche alle piccole iniziative culturali o la
defiscalizzazione della spesa culturale degli spettatori potrebbe essere un
incentivo alla partecipazione ma anche un modo per far emergere tanto lavoro
non dichiarato, nero. I soldi che si
spendono per i grandi eventi volti a un turismo di rappresentazione identitaria
dei genius loci locali, oggi dovrebbero essere destinati davvero a quello che
sarebbe un grande evento: il riconoscimento della qualità e del merito di chi
progetta, realizza, interpreta, l’impresa di costruire cittadinanza, visione,
immaginazione senza fingere quantità falsate quando non addirittura
falsificate. Gli artisti stessi così informati, formati ad essere imprenditori
di se stessi, dovrebbero abdicare da una misura che è altrui, non del teatro. I
bandi, se proprio necessari, dovrebbero contemplare anticipazioni per step di
realizzazione e non consuntivi a posteriori che richiedono impegni bancari e
sviluppo di interessi passivi. I politici deputati ad amministrare la cultura dovrebbero
aprire tavoli di confronto e di ideazione dal basso facendo pace con l’idea che
un assessore non è un direttore artistico, ma semmai un punto di sintesi e di
prefigurazione di ciò che un territorio è e può diventare. Un Ministero, un
Ente pubblico virtuoso dovrebbe sanzionare gli scambi, sanzionare il ritardo
nei pagamenti dei cachet, accertare la veridicità non delle fatture ma delle
pratiche. Si dovrebbero abbattere quelle gerarchie tecniche che fanno in modo
che uno spettacolo abbia valore documentale se fatto in un luogo deputato e
riconoscere l’importanza dei moltissimi presidi culturali, dei piccoli spazi non
deputati, non riconosciuti, non finanziabili dove le comunità di artisti e
spettatori costruiscono la vita del teatro. Crederci davvero, crederci per
tutti, questa sarebbe una vera impresa.