Ti immagini se da domani
smettessimo…
chi ha paura di parlare di economia dello spettacolo?
Ti immagini se da domani davvero tutti quanti smettessimo…
suonava così quasi venti anni fa una canzone “primaverile” di Vasco Rossi, e tutti sapevano bene a cosa si riferisse.
È questo verso, appunto canzonatorio, che si muove nell’aria in questi giorni. Mentre si discute dei tagli al FUS, di proposte di legge per il riordino del settore spettacolo, mentre saltano le abituali programmazioni dei teatri e delle compagnie per mancanza di fondi, se tutti quanti smettessimo di “fare” lo spettacolo dal vivo, quello spettacolo d’arte che non riesce a vivere dagli introiti di botteghino, quello che salterebbe non è solo la produzione e diffusione culturale e artistica nel nostro paese, ma un intero apparato produttivo che coinvolge un’enormità di settori: alberghi, ristoranti, trasporti, telefonia, tipografia, editoria, produzione intellettuale, tecnologica, manifatturiera. Salterebbe un sistema di tassazione diretta e indiretta, interessi bancari, nonché un impianto contributivo che vede già per i soli lavoratori riconosciuti dal Ministero nel settore teatrale prosa, ovvero inquadrati nelle strutture a cui il ministero impone un tetto minimo di versamenti contributivi annui, il versamento di oltre 500.000 giornate lavorative. Per l’intero settore spettacolo 200.000 lavoratori che significa un versamento nelle casse degli enti previdenziali di molti milioni di euro l’anno. E questo solo per il comparto dei “riconosciuti” a cui si aggiungono altre migliaia di lavoratori occasionali legati ai festival, agli eventi, alle scuole di formazione, ai progetti locali, anch’essi lavoratori inseriti nel sistema contributivo e soggetti di reddito.
È questa la macchina finanziaria e economica che si chiama oggi teatro d’impresa e su cui lo Stato investe affinché rimanga produttiva e continui a riprodurre indotto diretto e indiretto. Non si tratta dunque di sostenere e assistere un settore che nel suo stesso oggetto di produzione ha una frattura di plus valore, ovvero non essendo merce non è in grado di recuperare con l’erogazione l’investimento produttivo, si tratta bensì di riflettere sui valori indiretti che produce.
Ma fin qui niente di nuovo: economisti e specialisti del settore discutono di questi numeri e di queste analisi da molti anni molto meglio di noi, e peraltro inascoltati. Interessante è che i sistemi del capitalismo occidentale hanno organizzato da tempo un meccanismo di incentivazione e sostegno alle imprese dei settori primario e secondario proprio affinché in presenza di rischio sulla produzione di plus valore del bene, venisse incrementata la rete dei valori connessi. È la storia degli incentivi sulla rottamazione delle auto, degli elettrodomestici e quant’altro: si abbassano i costi di vendita per aumentarne l’acquisto, ciascun prodotto dunque produce minor plus valore ma poiché è in maggiore quantità nel medio termine riequilibra l’investimento e garantisce i consumi connessi. Basti pensare per il settore automobilistico alle tasse, assicurazioni, consumi di carburante, interessi bancari, oltre che al mantenimento dei posti di lavoro. Ora il segreto di questo processo sta in un fondamento del sistema di mercato, ovvero la creazione e l’induzione di un bisogno. Affinché l’incentivazione dia i suoi frutti e riequilibri la crisi nel medio termine, la merce in oggetto deve essere vissuta come occasione e il bene prodotto come necessario, ovvero come bisogno. I parametri di valutazione che discriminano i beni necessari da quelli superflui non ricadono dunque sul bene in sé, ma sulla funzione di quel bene nella vita del soggetto consumatore. È il patrimonio reale e immaginario delle molteplici funzioni che quel bene può avere nella nostra vita che segna il grado di valore che gli diamo, il grado di bene necessario e bene superfluo. Poiché questo patrimonio di funzioni non sono nel bene, che è inerte, ma in quello che gli attribuiamo, che è suscettibile, il sistema capitalista produce attribuzioni e dirige la percezione dei valori dei beni prescelti. Svelato questo semplice meccanismo che ci spinge ad avere bisogno di cambiare auto, telefoni e bevande preferite, la questione è non già se il settore cultura e spettacolo sia produttivo o meno, quanto piuttosto come mai il sistema e quindi lo Stato non lo ritenga passibile di attribuzione di necessità e venga invece impostato alla percezione del consumatore come bene superfluo.
Tra le molte risposte possibili una è strettamente connessa alla specificità del bene in oggetto ed è quella su cui appunto gli artisti e i lavoratori dello spettacolo reclamano una riflessione: lo spettacolo d’arte richiede un consumo partecipato, ovvero un consumatore partecipe all’atto del prodotto stesso. La relazione tra attore e spettatore, fondamento dello spettacolo dal vivo nonché indice della qualità dello stesso, è dal punto di vista economico relazione tra produttore e consumatore. Questa in teatro può essere solo diretta, rivolta a una collettività, ma personale e individuale per ciascun produttore e per ciascun consumatore. Tale soggettivismo della relazione costituisce la partecipazione perché richiede l’esercizio del sé come persona e come soggetto attivo nella attribuzione delle funzioni che quel bene riveste nella propria vita. In buona sostanza la cultura e lo spettacolo sono beni irriducibili a funzioni omologhe e omologanti, nessun artista riuscirà mai a fare uno spettacolo identico due sere di seguito quanto nella stessa platea nessuno spettatore potrà avere emozioni identiche a quelle di un altro. La corda invisibile che lega platea e palcoscenico, che si tratti di teatro, musica o danza, è tenuta insieme da miriadi di pensieri e sentimenti che non saranno mai riassumibili in una sola parola d’ordine. Per questa ragione l’incentivazione di questo settore oltre che impegnativa viene considerata anti-produttiva sul piano economico finanziario perché non integrabile sul piano ideale e filosofico. Impostare un sistema in cui venga percepito come bisogno necessario “vivere” uno spettacolo alla settimana da quando si è bambini a quando si diventa anziani, produrrebbe consumatori necessariamente partecipi perché è proprio l’oggetto che lo richiede per sua natura; consumatori attivi nella relazione con se stessi e con gli altri, consumatori “diversi” al punto da chiamarsi spettatori e produttori “diversi” al punto da chiamarsi artisti.
L’incapacità di sostenere la produzione non omologa e non omologante anche in assenza di razionali motivazioni economiche (dato che è dimostrato che l’offerta culturale e il turismo culturale sono tra i più importanti volani economici del paese) dal punto di vista finanziario è un macroerrore del liberismo capitalista, dal punto di vista filosofico è il peccato originale dei sistemi anti-democratici.
C.V 2011